Quando si decide di demolire una barca in vetroresina obsoleta in Italia, qual è l’iter da affrontare? Come avvengono il disassemblaggio e lo smaltimento? Quanto costa? Vi sveliamo, con l’aiuto dell’esperto, tutto quello che dovete sapere sul fine vita delle imbarcazioni (immagine di apertura tratta da https://boatingindustry.com/)
Complice una crescente attenzione verso le tematiche “eco” (per fortuna!), la vexata quaestio della demolizione delle barche in vetroresina e il loro smaltimento è molto sentita. Cosa dice la legge circa il “fine vita” delle imbarcazioni in Italia? Che procedure dovrà affrontare un armatore che decida di demolire la propria barca? Quanto costa l’operazione? Come funziona il processo di disassemblaggio dello scafo? Per rispondere a queste domande ci siamo fatti aiutare da Giovanni Fiore, responsabile tecnico di G.F. Service srl di Bacoli (Napoli), una delle (poche) aziende italiane che si occupa, con tecnologie a regola d’arte, della demolizione e dello smaltimento di ogni genere di imbarcazioni, dalla deriva al superyacht.
LA PRIMA FASE “BUROCRATICA”
Mettiamoci nei panni di un armatore di una barca di medie dimensioni (10-12 metri) che non è più utilizzabile e necessita quindi di essere demolita. “Le leggi che disciplinano lo smaltimento delle barche in Italia sono fumose, ma in realtà l’iter che un armatore deve intraprendere per demolire uno scafo non è così tortuoso”, esordisce Fiore.
“Dovrete per prima cosa contattare la Capitaneria presso la quale è stata immatricolata l’unità (tutto questo potrà essere fatto online una volta attivo il registro telematico? Speriamo, ndr) per richiedere l’autorizzazione alla demolizione della barca e la conseguente domanda di cancellazione dal registro. Se avete intenzione di riutilizzare l’entrobordo su un’altra unità, o rivenderlo, dovrete richiedere in Capitaneria anche il nullaosta per lo sbarco del motore. Se invece volete disfarvi anche del propulsore, dovrete specificare, nella richiesta di autorizzazione, che il motore e le parti meccaniche saranno demolite e prese in carico dall’azienda, indicata dall’armatore, che si occuperà della demolizione”.
Il costo di questa ‘istruttoria’ varia poiché è in funzione di una tassa di smaltimento provinciale (a cui andranno aggiunte le marche da bollo e un certificato che attesta che sull’unità non è imbarcato personale marittimo). Se l’azienda che demolirà lo scafo è seria, eseguirà un sopralluogo per verificare lo stato della barca, vi richiederà i documenti, la perizia di stima e stilerà un dettagliato preventivo.
LA PALLA PASSA ALL’AZIENDA
Una volta che la Capitaneria avrà fornito tutte le direttive burocratiche necessarie, la palla passa all’azienda che si farà carico del trasporto dell’imbarcazione nel sito di demolizione: “Tocca al demolitore informare la Capitaneria del giorno esatto dell’inizio dei lavori”, prosegue Fiore, “che corrisponde con il ‘taglio della prua’ della barca. In tale giornata dovrà essere presente, necessariamente, un ufficiale in rappresentanza della Capitaneria, per certificare che sia tutto in regola. Ovviamente, l’azienda può essere passibile di verifiche e controlli anche durante i lavori”.
I lavori possono iniziare. Bene, ma in cosa consistono e quanto durano? “Viene redatto un piano di demolizione e un piano operativo preliminare (che contiene, in soldoni, il ‘chi fa cosa’ e le certificazioni del personale coinvolto, tutte le misure di sicurezza che vengono applicate e tutta la valutazione dei rischi). Inoltre viene inviato all’INPS e all’INAIL la Denuncia dell’inizio delle attività”.
COME VIENE DEMOLITA UNA BARCA
Passiamo alla fase operativa: “Si parte con l’allestimento del cantiere: l’area che verrà dedicata alla demolizione della barca viene circoscritta con reti da cantiere, l’accesso è riservato esclusivamente al personale, si predispongono tutte le misure antincendio per la presenza dei mezzi meccanici. Deve poi essere presente un bagno chimico per gli operatori tecnici specializzati: noi installiamo nel sito anche un’unità mobile decontaminante per la pulizia dei dipendenti). I cingoli dell’escavatore demolitore vanno avvolti da un nastro gommato per proteggere l’eventuale pavimentazione. Sotto all’invaso su cui è sistemata la barca, va sistemato un telo di polietilene per evitare la contaminazione del suolo, sia esso cemento che terreno. Se è prevista la demolizione dell’entrobordo, sotto al vano motore va steso uno strato assorbente per evitare la dispersione di oli nocivi”.
Lo step successivo è il disassemblaggio vero e proprio: “In parte viene eseguito manualmente con operatori specializzati, le porzioni in vetroresina più grandi vengono distrutte con l’aiuto dell’escavatore con pinza demolitrice. Nel contempo avviene la ‘cernita’, la divisione dei vari materiali: plexiglass delle finestrature, acciai di bordo, parti elettriche, tubature, legni, pellami, cuscinerie”. Seguono il carico con l’ausilio del “polpo” caricatore, e il successivo trasporto presso gli idonei impianti di smaltimento autorizzati dei materiali ed il disallestimento del cantiere: “La durata dei lavori può allungarsi se l’armatore vuole recuperare dei pezzi di barca (alberatura, mobili, legni, eliche, apparecchiature, etc), ma per una demolizione totale di una barca di 10-12 metri serviranno almeno 2-3 giorni di cantiere”.
QUANTO COSTA IL TUTTO?
E poco più di 3.000 euro, se si considera che il cantiere, in media, costa dai 1.000 ai 1.200 euro al giorno. Non è poco, ma se i lavori vengono eseguiti a regola d’arte, rispettando l’iter di cui sopra, capirete che il prezzo è giustificato: vedremo poi come esista la possibilità di recuperare qualche ‘verdone’. E ora veniamo allo spinoso (sia dal punto di vista ambientale che economico) smaltimento della vetroresina: “In altri paesi si stanno dando da fare, ma in Italia non esiste ancora un sistema efficiente di riciclo della vetroresina, che finirà in discarica. Questo fa sì che i costi a carico dell’armatore siano piuttosto elevati: quest’anno (causa emergenza ecologica) si parla di circa 450 euro per tonnellata”.
L’unico processo di trattamento degli scafi in vetroresina attualmente disponibile è la demolizione termica non ossidativa (la cosiddetta pirolisi), con la quale si ottiene una miscela di gas e un residuo solido (ovvero le fibre): tale sistema necessita di grandi quantità di energia termica per arrivare alle temperature necessarie (dai 400 agli 800 gradi). Prendiamo un classico Grand Soleil 39 di Jezequel (speriamo che non dobbiate mai demolirlo), 8,3 tonnellate di dislocamento. Tolti i legni e i metalli, rimarranno almeno 4-5 tonnellate di vtr da smaltire? Preparatevi a sborsare almeno 1.800 euro più le spese di trasporto. Facendo due calcoli, difficilmente andrete a spendere meno di 5-7.000 euro: ecco spiegato perché in banchina se ne sentono di tutti i colori relativamente a barche portate al largo e affondate per evitare le spese di demolizione (follia!).
E perché i nostri entroterra sono zeppi di relitti in vetroresina lasciati a morire in secca.
I METALLI DI BORDO RIDUCONO IL COSTO
Ma attenzione: la demolizione operata nel pieno rispetto delle regole è la scelta più logica e responsabile nei confronti dell’ambiente e come vi abbiamo anticipato c’è la possibilità di ridurre i costi: vendendo (vi dovrete sobbarcare gli oneri del trasporto dei materiali ovviamente) separatamente il motore, le vele, l’alberatura, gli strumenti, e tutto quanto sia commercializzabile. E i metalli di bordo sono una risorsa importante, spiega Fiore. “Il reso dei metalli è la soluzione più conveniente per gli armatori. A seconda del prezzo di mercato del metallo in quel preciso momento, da un’imbarcazione di medie dimensioni si possono ricavare dai 1.500 ai 2.000 euro”.
DOVE FINISCONO GLI STAMPI?
Curiosità finale. Un lettore ci ha chiesto lumi su dove finiscano gli stampi in vetroresina delle barche uscite di produzione: “Quando in cantiere decide di disfarsi di uno stampo, l’operazione è più semplice: la determinazione dei costi è immediata perché nelle schede tecniche degli stampi sono riportate le esatte quantità di vtr e metalli presenti. L’operazione di demolizione andrà comunicata in questo caso all’Agenzia delle Entrate, che invierà in sua rappresentanza, il giorno dell’inizio dei lavori, un ufficiale della Guardia di Finanza”.
Eugenio Ruocco
Si ma nessuno dice che se le fibre di vetro per loro natura possono rientrare nella categoria del FAV ( Fibre artificiali vetrose ) Secondo quanto stabilito dal Decreto Legislativo n. 152/2006, gli oneri relativi alla corretta gestione e smaltimento dei rifiuti sono a carico del produttore (la persona la cui attività ha prodotto rifiuti).
Il produttore deve procedere alla classificazione del rifiuto (ovvero attribuire un codice CER) sulla base della concentrazione delle eventuali sostanze pericolose in esso contenute.
Le possibili classificazioni per le FAV sono le seguenti:
17.06.03* (rifiuto speciale pericoloso);
17.06.04 (rifiuto speciale non pericoloso).
Ancora una volta, sono le caratteristiche chimiche e fisiche delle FAV (contenuto di ossidi alcalini ed alcalino/terrosi e diametro medio geometrico pesato sulla lunghezza delle fibre, DLG-2ES) a determinarne la classificazione.
Quindi prima di portare in discarica i resti della vostra barca dovete classificare le fibre e sperare che non siano considerate rifiuto speciale pericoloso altrimenti i costi di bonifica e smaltimento aumentano.